lunedì 14 gennaio 2013

ALTOS REGNOS

Ogni giorno scriveva una lettera pur non sapendo nemmeno se colei alla quale era destinata abitasse in una delle nuove case della Marina o nella città antica o se fosse una donna di passaggio, una delle tante che riempivano l’aria dell’estate con il loro profumo. Ignorava se fosse una donna del posto o una forestiera, quella donna che una mattina era salita sulla sua barca e le aveva portato, il cuore. al largo. La scriveva senza imbucarla, affidandola ad un postino insolito, lasciandola andare sopra il lento scorrere del fiume verso il mare che, ne era convinto, in qualche modo l’avrebbe portata fino a lei. “Ditemi signora qual è il vostro nome così che possa darlo a questa barca e portarlo con questa in mezzo al mare dove possa contendere all’onda la bellezza e al cielo il colore dei vostri occhi”. Così iniziava tutte le lettere ed Agosto era arrivato con un tripudio di sole che sembrava cancellare ogni pensiero d’ombra. Ma quello era un giorno importante il primo, quello in cui le barche, vestite a festa, avrebbero disceso il fiume ed una di queste, col simulacro della Madonna, avrebbe ripetuto quella promessa che il paese aveva stretto con Maria Stella Maris scendendo lungo il fiume tra il suono delle sirene sopra quelle preghiere liquide che sembravano stringersi intorno al simulacro. Lui, come gli altri pescatori aveva preparato la barca ripulendola completamente, rimettendo in ordine lo scafo, rinfrescandolo con vernici e poi addobbandola con fiori e bandierine di carta. Come per un matrimonio. Era uno spettacolo vederle così ordinate, colorate e pulite, scendere sull’acqua come se lo sguardo sfogliasse un album di cartoline. Pronte, come le coperte e le lenzuola di una stanza che aspettano una sposa. “Sei un pescatore? E cosa peschi?”. La donna gli aveva parlato e lui aveva sollevato lo sguardo, lasciato cadere i remi e la voce. Aveva guardato quella visione che controluce sembrava attraversata dal sole. Gli occhi scurissimi lo guardavano, la bocca era rimasta appena socchiusa lasciando il biancore di latte dei denti a risaltare come perle intorno al rosso acceso delle labbra che contrastava l’azzurro del vestito che indossava come il cielo di una mattina d’estate. “Mi hai sentito? Posso salire sulla tua barca: è tua vero? Certo che è tua, finisce dove tu incominci, siete una cosa sola.” Lo scafo forse aveva ondeggiato un po, ma non era sicuro se questo fosse dovuto al suo muoversi. Un moto appena percettibile, come la donna non avesse nessun peso e fosse qualcos’altro a spostare le frecce della bilancia invisibile che misurava il peso dello scafo. Lei era rimasta in piedi, in equilibrio tra il suo stupore ed il suo sorriso giovane, sorpreso ma anche sereno mentre si guardava intorno cercando, forse, dei pesci. Non aveva aperto bocca. Era rimasto a guardarla come se il silenzio, lo stesso di come quando si trovava al largo gli avesse inchiodato le labbra. Non parlava ma la guardava, risalendo il suo corpo dai piedi fino alla testa e riscendendone in caduta libera, dopo aver fissato per un attimo i suoi occhi. Così come era arrivata era andata via. Nell’aria era rimasto il suo profumo. Stordito e confuso non riuscì a seguirne la figura mentre spariva in mezzo alla folla che risaliva la passeggiata del Lungo Temo. Per un attimo aveva creduto ad una visione ma poi si ricordò benissimo quando la ragazza si era chinata per prendere tra le mani il rosario che per logica, doveva essere appartenuto a sua madre e prima ancora a sua nonna. Lo aveva quasi accarezzato con un gesto familiare. “Molto bello” aveva detto, “e deve essere molto antico. Il corallo si è consumato, tua madre deve aver pregato molto”. Voleva rispondere, dire qualcosa. Ma le parole si impigliavano nella sua gola come pesci spaventati. I pensieri andavano su e giù come una rete che avesse perso i galleggianti ed affondasse miseramente col suo carico. La guardava. O meglio cercava di guardarla perché intorno a lei la luce del sole che stava per darsi al tramonto sembrava prenderla con se. “Ti sento sempre cantare, hai una bella voce, lo farai anche per me un giorno?” Ma una cosa è la logica, un'altra il cuore: la donna non poteva sapere che quel rosario non era mai appartenuto alle donne della sua famiglia. Poteva aver pensato che se la madre avesse avuto una figlia femmina il rosario lo avrebbe affidato a questa. Ma forse avrà creduto che un rosario è un oggetto femminile ignorando che un rosario c’è in ogni barca perché saranno pure rudi i pescatori , ma sono uomini di fede e poi, molte barche hanno il nome di un santo o della stessa Vergine o del Salvatore e poi, a guardarlo bene, un rosario ricorda molto le reti se guardate con attenzione. Cosa sono i galleggianti se non grani di un rosario? Infatti la coroncina era stata del padre e prima ancora di un altro padre, che a questo ricorreva quando una tempesta sembrava reclamarlo o una bonaccia ridurlo alla fame. E come sapeva del suo cantare? Quando lo aveva ascoltato? Chiedile qualcosa diceva dentro se. Il nome, fatti dire il nome, implorava il cuore. Come se ogni volta che aveva cantato lo avesse fatto, inconsapevolmente, per quella donna sconosciuta che adesso lo fissava incollando la sua immagine alla barca, come un santino. Ma le parole erano superflue perché lei sembrava leggere dentro i suoi pensieri. “Chi canta d’amore canta per ogni anima innamorata. L’amore non ha un nome, l’amore è solo l’amore, il nome è un dettaglio, un piccolo silenzio nella musica della vita”. Rimase così anche quando andò via e aspettò che il movimento che i suoi piedi avevano creato sulla barca cessasse. Ma le onde avevano continuato ad andare dentro il suo corpo, come se sul cuore soffiasse un vento. La barca era immobile, era lui ad ondeggiare come se il mare gli fosse entrato dentro. Una lettera come una canzone. Dedicata al signore potente della luce che calava sul mare e all’altro che nasceva tra l’alba e il sonno sul piatto bianco della luna, apparecchiata nel buio come per una veglia. Una canzone. Strofe di parole come sbuffi d’onda che raccontavano travagli e movimenti, spostamenti e attese. Cantava per il sole che tutto sapeva e taceva, li, sulla barca, che ancora assorbiva lo sciabordio del suo passo. Si era innamorato. Non v’era dubbio. Eppure quell’amore era leggero come quando al largo, ci si innamora perdutamente di una brezza che sembra portarti con se. E di lei, come del vento che esausto, quando cala, lascia dentro quel bisogno d’andare ancora, ancora aveva desiderio. Della sua figura era rimasta la grazia dei movimenti che, di cui non si accorse non increspavano la superficie liquida con le inevitabili onde di un corpo che viola l’acqua. Lo specchio gelatinoso che riportava la sua immagine era fermo come un quadro, come l’ultima immagine di un sogno, prima del risveglio. Scriveva ogni giorno una lettera d’amore, seduto sulla sua barca, alla fine del fiume dove nessun’altro pescatore vi ormeggiava. A volte cantava. Poteva essere una corsicana, in un altro momento un canto in re, molte altre ancora muttos d’amore. Un canto per ogni sentimento, come un abito per ogni occasione. Ne aveva canzoni appese alla randa insieme al rosario. Tante che avrebbe potuto riempire mille novene e seguire altrettante correnti e passare, come acqua contesa tra il fiume e il mare. Non che lui fosse molto religioso, ma non era nemmeno uno che dimenticava quando era il momento di andare su, a Regnos Altos, nel giorno della festa, quando settembre disseminava i suoi tesori tra le case adagiate sulla costa del monte e il sole li raccoglieva uno ad uno. Saliva su a portare una candela, un amo, e una vela, confondendosi con i pellegrini, recitando a bassa voce una Ave Maria. Ma su, a Regnos Altos ci andava anche a marzo o ad aprile, quando si univa ai cantori per intonare gli inni del Signore in Chida Santa. Perché, pur non facendo parte della Confraternita, questa lo aveva accettato e durante la Settimana della Passione la sua voce accompagnava il Calvario del Cristo ed il suo canto aveva dentro tutti i lamenti che quella terra poteva esprimere. Cantava in s’incravamentu, in sas chircas, cantava per piangere il Cristo e confortarne la madre. Cantava e le parole erano chiodi che non facevano male ma ugualmente affondavano nel corpo di ogni buon cristiano e le sue parole sembravano rendere meno dolorosi quelli che sanguinavano sulla mano e sui piedi del Nazareno. Ma Regnos Altos aveva un fascino antico. Specialmente per lui che da quando, per la prima volta, ne aveva conosciuto la storia. Si era immedesimato nel ragazzino che secondo una bella leggenda, aveva trovato la piccola statua che raffigurava la Madonna e stupito l’aveva portata in una chiesa. Quante volte era salito su da solo in quella piccola chiesa dentro il Castello e quante volte ne aveva respirato il mistero senza neanche far caso al fatto che questa portava il suo nome, un nome da apostolo. Andrea. Le prime volte da solo, ancora un ragazzo, nella solenne dimora dei Malaspina riusciva ancora a sentire l’eco delle gesta di quel tempo, quando Bosa ricca e potente, comandava alla terra e al mare ed i nobili nei giorni di festa, uscivano avvolti da ricche vesti per ostentarsi davanti a tutti. Non gli era mai pesato fare quella salita. La gente, in quei primi giorni settembre, andava e tornava per quelle vie antiche de Sa Costa e lui si sentiva fiero di essere nato li, a Bosa. Era orgoglioso che tanta gente sconosciuta ci venisse non solo per la marina dalla sabbia rovente o per ingannare la morte durante il carnevale sfrenato ed allegro ch’era invidia di tanti, ma forse di più per questa festa che era la festa di tutta una terra. Già, la festa. Gli Artarittos eretti lungo le strade da donne giovanissime e anziane erano dei piccoli altari in miniatura. Incantevoli. I preziosi simulacri antichi deposti amorevolmente sopra il pizzo di filet più pregiato erano una miniatura del paradiso che mille donne immaginavano così, pulito e sobrio, elegante ma non opulento, sacro ma anche un po domestico. Nella loro discreta eleganza strappavano un segno di croce ai passanti ed una preghiera anche ai cuori più duri. E lungo le salite, dai portoni delle cantine aperte, la gente con in mano un bicchierino di malvasia brindava alla vita e mille naufraghi popolavano un nuovo paese che ogni anno, miracolosamente, sembrava sovrapporsi a quello che c’era prima. Tutti felici, allegri a guardare il sole sparire ad ovest, a dormire nel letto rovente della Spagna le cui coperte avevano un tempo riscaldato anche il sonno della Sardegna ed ora, lontanissime custodivano il sonno di altri corpi. La scriveva seduto sulla barca, le sue lettere d’amore. Li, nel punto in cui il fiume iniziava ad essere tale lasciandosi dietro il torrente che era precipitato dalla collina dove le ultime rocce della Planargia guardavano verso il tramonto ed iniziava la sua corsa finale verso il mare. Ma prima attraversava la borgata costruita intorno al suo letto e dove un tempo le concerie scaricavano nelle sue acque tutti gli avanzi di lavorazione delle pelli, oggi tante e meravigliose casette colorate avevano trasformato il panorama e guardarlo dal castello dei Malaspina era come farlo dal cielo, azzurro e pulito che allargava l’orizzonte perché niente ne restasse escluso. Ogni giorno una lettera, con una scrittura antica, quasi da bambino o da anziano, con dita incerte poco avezze all’uso gentile della penna che per un miracolo di volontà lui riusciva a stringere senza frantumarla. Mani indurite dal sale e dalle funi, mani che avevano stretto il timone e le cime, tirato reti e remi scrivevano la sera, quando riportava la barca al suo ormeggio e la luce andava diminuendo come la speranza di ritrovarla ancora. Scriveva e per un po smetteva di cantare perché il canto, come la pesca, gli appartenevano e lui apparteneva ad entrambe. Poi le affidava al fiume. Staccava con cura il foglio, lo adagiava sulla superficie dell’acqua e lo osservava galleggiare e andare via, come un pensiero. Magari, specialmente alla foce dove le correnti erano più forti, l’acqua lo avrebbe preso con se e portato dritto dritto in un mulinello irresistibile, fino a lei. Cantava lasciando cadere le reti fuori dalla sua barca. L’orecchio di ogni essere vivente lo sentiva stupito, come i pesci che abboccavano all’amo. Un leggero colpo di lenza ingannava gli stupiti passanti dell’abisso che, incantati, lasciavano che il loro stupore si impigliasse sulla punta aguzza dell’amo che era la sua voce. Aguzza quasi come uno spillo che si conficcava nella trama del tessuto disegnando motivi che non erano mai stati di un altro sguardo. Il canto era Pesca Miracolosa. Da sfamare le mille famiglie che contavano sulla solidità del legno che affrontava le onde. Cantava e la sua voce era rete lanciata nell’abisso dell’anima per chiedere ai pesci di diventare cibo e di alimentare quel fuoco affamato di fiamma che era la loro tavola. Quel giorno di aprile era Pasqua alta ed era entrato presto in Cattedrale. Era martedì, un giorno sacro. I membri della Confraternita di Santa Croce avevano preso le cinque grandi statue dei misteri e sulle loro spalle attraversavano in una mesta processione, le vie del centro dirigendosi, dopo un giro antico, verso la Cattedrale. Lui aspettava il loro arrivo, seduto in quel punto che a lui era caro. Un posto negli antichi banchi vicino all’altare dove la luce sembrava imbarazzata ad entrare. C’era ancora tempo prima che varcassero l’antico portale e li depositassero ai piedi dell’altare. Ma senza che nessuno dicesse qualcosa o lo chiamasse, aveva iniziato a cantare. La chiesa si andava riempiendo e la sua voce risuonava nel vuoto prendendo ancora più corpo e consistenza, quasi rimboccando gli scialli scuri sopra il volto delle donne perché solo gli occhi si offrissero a Dio. Cantare. Avrebbe cantato per quella donna canzoni che nessuno avrebbe potuto neanche pensare, modulare la voce e piegarla, come un metallo, perché le note più alte tagliassero l’aria in minuscoli frammenti e quelle basse, grasse come spighe di grano, potessero ostentare la loro bellezza su ogni tavola, mietute, come spighe, da una rustaggia d’amuri. Cantava l’Avemaria che non era un canto per quei giorni. Prima in tonalità minore, come la scuola spagnola insegnava, poi in maggiore, per rispetto alla tradizione sarda che vi metteva dentro l’intervallo del ballo e poi via, in quell’armonia che solo lui sapeva e poteva raccontare, come una palistoria, per le orecchie di quei bambini che pur non sapendo di esserlo, riempivano la chiesa e facevano le prove con le ostie non ancora sacre ma ugualmente pronte d esserlo quando attraversavano la foce dell’infanzia e si davano all’infinito mulinello della vita che avevano dentro. Cantava il pescatore che aveva il nome di un apostolo che se anche non era accanto agli Evangelisti, il suo vangelo era tra quelli scritti nel Libro. Cantava e la voce era una danza tra il dolce del fiume ed il salato del mare, una pacifica battaglia benedetta dall’aria. Cantava, per quel tempo mutilato dove la luce accorciava il sole d’inverno dove anche lo Stabat prendeva tutte le tonalità e le frequenze che a molti erano precluse. Le parole che uscivano dalla sua bocca lasciavano il maschio dei suoi fianchi per diventare un pianto femmina che sapeva di sole sale e solitudine. Cantava, nella sagrestia orfana di apostoli e di confratelli perché non voleva fosse soltanto il silenzio ad accompagnare l’agonia del Cristo. Era, in quel momento, leggero più della vela che piegata dal vento, come sposa si offriva al desiderio maschio di renderla madre. Era, la sua voce, culla e talamo dentro la quale restituire al tempo ogni suo dono e lasciare in ogni orecchio, come dentro un ventre, un dono di vita. Cantava sapendo che a volte le parole da sole erano superflue. perché solo il suono che attraversava i polmoni, era capace di infilare tra un grano e l’altro del rosario, una nuova preghiera e aggiungerne una nuova. Anche quel giorno, con la stessa emozione, cantava ispirato: “et secundum multitudinem miserationum tuarum,dele iniquitatem meam. Amplius lava me ab iniquitate mea et a peccato meo munda me”. Le parole dello Stabat bruciavano e sembravano fondersi con la cera ma invece di consumarsi sembravano crescere. Il canto era un cero senza fine che dal suo consumarsi trovava alimento. Così era rimasto da solo mentre i confratelli erano ancora per le antiche strade per i riti che quel giorno dovevano essere compiuti solo da coloro che erano fratelli per una legge antica ed immutabile. Il Venerdì Santo era un giorno di silenzio e preghiera, un momento in cui niente poteva turbare il lutto dell’umanità intera. Ma non voleva andare via, sentiva che mancava qualcosa e quella croce sembrava chiedesse qualcosa. Non avrebbe dormito come Pietro, lasciato che un gallo svelasse la sua paura, ne che il centurione facesse scempio della veste o che solo le donne, ammutolite dal dolore, lastimassero il Cristo Morto. I banchi semivuoti della chiesa erano come barche in secca. In molti di essi il nome del benefattore, inciso sul legno, chiedeva una preghiera in suffraggio. Seduto sopra su uno di questi lasciò che il suo sguardo si perdesse dentro la chiesa. La sul transetto, uno spazio vuoto, come una terra di nessun’altro, attendeva la croce ed il corpo del Cristo, ma già sembrava vivere di una sofferenza che vinceva il vuoto che tutt’intorno vi era costruito. Vuota di speranza la chiesa espiava un peccato antico. Troppo silenzio pensò mentre la sua anima decise di cantare. Si inginocchiò e le mani, d’istinto andarono sotto Il ripiano del banco dove sapeva venivano lasciati i breviari e i libretti dei canti sacri. Ne prese uno e lo sfogliò tranquillo. Li conosceva a memoria ma era un riflesso incondizionato, leggere e cantare, pur conoscendo ogni parola a memoria. Era un libretto antico, consumato dalle mille dita che lo avevano stretto, sfogliato. Forse anche sua madre vi aveva lasciato un segno. Sull’angolo destro, inspessito dalle lacrime c’era l’impronta dolorosa che mille suppliche vi avevano scolpito. Vi poggiò la sua ed iniziò a sfogliare. “Ditemi signora quale è il vostro nome così che possa darlo a questa barca e portarlo sopra questa in mezzo al mare dove possa contendere all’onda la bellezza e al cielo il colore dei vostri occhi.” Al principio stentò a credere che quelle che stava leggendo erano proprio le parole che aveva scritto per la sconosciuta che aveva cercato per giorni e giorni fino a quando, dopo averlo sfogliato riconobbe tutte le lettere che aveva scritto per Lei. Ebbe paura e di questo si vergognò. Preso dal panico usci dalla cattedrale e senza sapere perché, prese a correre sulla via che portava su, a Regnos Altos. Il paese sembrava scorrergli affianco, veloce come vento accelerava il suo passo. Stringeva il breviario quasi avesse timore che i fogli si disperdessero. Non si curava dei pochi passanti, anzi, aveva come l’impressione che lui li attraversasse senza nemmeno sfiorarli. Si sentiva leggero, si sentiva vento. Arrivò al Castello e si fermò solo quando fu davanti al portale della piccola chiesa di Sant’Andrea. Vi entrò stringendo tra le mani quel breviario, camminò verso quel punto che sembrava attrarlo a se come una corrente e solo allora si lasciò cadere in ginocchio davanti alla nicchia dove era conservata la piccola madonna. Quando la vide iniziò a capire e senti la terra allontanarsi. Guardava il piccolo simulacro ed era come se questo gli sorridesse. E mentre lo guardava ne riconosceva il volto. Era quello della donna che era salita sulla barca, la sconosciuta che credeva non avrebbe mai più incontrato e che invece ora era li, davanti a lui. Chinò il capo e istintivamente riprese a sfogliare le pagine del libretto e in ogni pagina vi trovava non solo le lettere che lui pensava perdute, ma anche le canzoni, le strofe, i muttos le disispirate che aveva cantato in tutta la sua vita. Iniziò a capire e capire era accettare il dono che lei le aveva fatto leggendole, ascoltandole e non lasciandole perdute, ma iniziando ad accettare che era arrivato il momento ed ora lui era in quel punto che non è ne del cielo ne del mare ma solo dell’andare che batte il tempo di ogni uomo. “E’ ora che tu canti una canzone per me, solo per me, sei pronto Andrea?”. La voce era arrivata leggera, brezza di suoni, come se il piccolo simulacro avesse soffiato verso di lui. C’era nell’aria, una piccola vibrazione, come se la pietra della chiesa risuonasse percossa come uno strumento. Ma lui non era più nella chiesa, neanche sul molo o sulla barca nemmeno in un posto che poteva essere immaginato. Il movimento che lo cullava era dentro il suo cuore, fuori il mare era calmo, la terra senza vento, il cielo senza stelle. “Sono pronto” disse Andrea, senza esitare, lasciando che la sua voce diventasse altrettanto leggera, impalpabile come i fogli lasciati cadere sulla superficie dell’acqua e presi in consegna dalle onde e portati lontani dove non c’era ne la fine del fiume ne il principio del mare. Semplicemente cantò. Solo per Lei. Per Lei, de Gratzia Plena


Altos Regnos, Michele Pio Ledda, per isolaerrante, tutti i diritti riservati © 2012
Buona giornata riprendo da oggi e mi impegno ad un impegno frequente a scrivere su questo blog con la speranza di regalarvi qualche attimo di felicità.

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