TANIT
Certe volte, fermo in mezzo al mare mi guardo intorno.
Sono rimasto solo, della mia gente, del mio popolo e della mia stirpe resta solo la pelle di questo vecchio e le pietre cadenti di quelle che erano le nostre case e il nostro orgoglio. Avrei dovuto morire quel giorno che tutto finiva, saltare dalla roccia e confondere le mie ossa con la polvere della terra: non avrei dovuto offendere il dio e sopravvivere ai miei figli caduti nella difesa di una terra che niente avrebbe potuto difendere.
I nemici erano forti, le loro spade, il loro ariete e il loro numero superavano il nostro orgoglio, niente poteva fermarli, avevano gli dei dalla loro parte.
Ma io non sono caduto sotto i loro colpi, il tempo si è dimenticato dei miei anni e ora la memoria è come i piccoli cerchi concentrici che partono dalla cima che tiene l'ancora, si allarga, cavalca le piccole onde che sfumano nell'orizzonte e ogni cerchio ha una storia che si può raccontare.
L' isola di Maluentu , è poco più di uno scoglio, spogliato di quello, che un tempo era il suo tesoro. Mi sembra solo ieri che le sue voci magiche, mi spaventavano e mi incuriosivano, come se dentro, avessero un richiamo, che solo le mie orecchie potevano sentire e i miei sensi, recepire e assorbire completamente. Rimango immobile sulla mia barca ad ascoltare le sue storie e spesso, cullato dalla risacca, mi addormento. Quelle voci, invece di sparire, entrano nel mio sogno e diventano figure, persone, storie ed immagini.
Sembra solo ieri, la mia prima volta solo col mare, solo con la linea inconfondibile dell'isola che si annunciava, a poche miglie dalla spiaggia. Raggiungerla, era una vittoria, al cui gusto ancora non riuscivo ad abituarmi. Mi inebriava come l'odore pungente delle sue piante, e quel rumore vivo e pulsante che i suoi anfratti nascondevano e dispensavano generosamente.
Ancoravo la barca a pochi metri dalla riva e mi tuffavo. In un attimo, diventavo l'unico re di quello, che era il mio regno e il mio covo.
Dalla cima, la Cala delle Saline, era un miraggio, lontana, più delle poche miglia che mi separavano dai suoi scogli e Santa Caterina, il profilo minaccioso di Capo Frasca, diventavano, i magici confini di un mondo, ancora tutto da scoprire.
A volte, restavo tutto il giorno senza fare nulla. Non mi importava più di tanto se le reti si asciugavano sulla barca, con lo sguardo, andavo sulla distesa bianca di Putzu Idu, la sua lingua di terra si allontanava portandosi via la mia voglia di farvi ritorno.
Mi sentivo come ci si sente, quando intorno il mondo scompare e tutte le cose, hanno lo stesso scopo e la stessa destinazione, stanco: come se la stanchezza arrivasse insieme alla sera e avesse dentro di sé, la cura ai miei pensieri.
Intorno all'isola, i fondali rocciosi racchiudevano gelosamente i loro tesori e dentici, orate, spigole, lo custodivano gelosamente.
Nelle sue acque trovavo le mie radici e crescevo, nutrendomi di quel suo cibo e tutto questo era ieri, solo ieri.
Ma il tempo passa ed altre cose arrivano, si sostituiscono le prime, con un tocco morbido che ricorda l'alternarsi dei venti d'estate; ed è ancora Sardegna, sopra il cemento delle nuove case, sulle linee degradanti verso il mare che cambiano rapidamente forma e sembrano allungarsi, strappare spazio al mare a mano a mano che le nuove costruzioni, si sovrappongono chiudendo tutti gli spazi.
E' ancora Sardegna, tra i fondali saccheggiati, rivoltati, spogliati e ancora violati, ancora Sardegna, nonostante l'urlo violento delle cose che cambiano e che non sanno di cambiare.
A volte, gli aerei volano così bassi, che non riesco a capire cosa lì tenga su . Arrivano di colpo, non lì annuncia la tempesta, né lo scirocco, né il vociare degli uccelli: semplicemente arrivano, come può arrivare un'alba improvvisa in una notte buia o una malattia, mentre ti senti forte.
Qualcosa mi schiaccia alla superficie del mare, come una mano invisibile ed enorme che frantumando la superficie dell'acqua, volesse ghermirmi e trascinarmi in basso. L'acqua esplode in mille piccoli aghi che entrano dappertutto, il mare impazzisce, la prua e la poppa si confondono. Tutto inizia a girare vorticosamente come sé, impigliatomi in un filo lunghissimo, non né trovassi più gli estremi.
Solo quando vedo la polvere sopra le montagne sbriciolate di Capo Frasca, capisco che è tutto finito, il loro urlo si sente ancora nell'aria, ma sono già lontani, allora, punto verso la mia isola.
La mia isola, non mi sono mai rassegnato a chiamarla isola...non mi basta vederne l' inizio e la fine per accettarla, isolata e staccata dalle mie cose e diventa ancora più isola quando la sensazione di silenzio aumenta e la mia solitudine si completa con la sua, allora, anche io, divento uno dei tanti suoi punti che confinano con il cielo e con il mare.
Ma è Sardegna tutt'intorno, solo e sempre Sardegna, solo, su questa piccola barca, posso vederla, sentirla, capirla tutta. Mi basta puntare la prua dove il Golfo diventa immenso, per trovare tutte le risposte, e ora, che non ho qualcuno a cui raccontarle, posso andare per questi sentieri marini e lasciare, che a Nord Ovest, le pietre bianche di Tharros spuntino dal nulla.
Ci conosciamo, ci intendiamo, io e queste pietre che parlano, sussurrano le loro storie. Non serve urlare, tutt'intorno, è come se il legni Fenici, cercassero ancora l'ormeggio migliore; come sé, il loro metallo, le loro spezie, promettessero ancora, ricchezza e gloria.
Oh!...cosa importa se adesso, sui lingotti di piombo e stagno, i licheni dormono tranquilli, sui fondali, il legno delle barche nasconde i piccoli pesci, sulle strade impolverate le voci d'Africa tacciono: ma se voglio, posso, ancora una volta, barattare con il loro avorio e i loro occhi scuri, i miei pesci e la linea morbida di Capo San Marco.
Lo so, non si invecchia a raccontare storie, la memoria si nutre dello sforzo del mio cervello, nel cercare particolari che sfuggono come pesci furbi dall'amo. La memoria ritorna, come i calli e le ferite sulla mano, che pure, conoscono da sempre, il legno del remo.
Ma ogni volta è la prima volta, ogni volta, le ferite riprendono a sanguinare e le parole, ad uscire dalla bocca, proprio come adesso, mentre i miei occhi, guardano Tharros.
" Sacrificherò mio figlio su quest'altare, il fumo si disperderà a Nord e riempirà le pianure. Venite Asthar, Demetra, venite figlie del Sogno."
Il vetro azzurro luccica nelle mani scure e il mio viso si riflette sulla sua superficie, Sortilegio! Sortilegio!
La porpora arrossa i visi spossati e i corpi scuri si coprono di mille colori, Tanit, Tanit! - Tra le lagune di Mistras, Cabras. Fino a Sa Marigosa, questa gente ti chiama...
Ma io vedo sacerdoti assorti nel Tophet , il grano trabocca dall'orlo dei vasi d'argilla chiara, lo spirito di Baal urla il suo dolore: posso sentire le loro parole: "Quante volte morirai ancora, figlio di Amon, per quante volte ancora, il tuo sangue scorrerà sull'altare e si spanderà nella terra?".
Controluce, tutte le vele sono come uccelli senza casa, controluce le vele, spariscono in chiazze scure che la mia barca attraversa senza affanno, vola sulle onde, si solleva...Tanit! Tanit! Riempi la mia barca con i tuoi doni, scatena la tua abbondanza e conserva giovani, il seno e il ventre della mia donna.
Fa che non si disfino come i venti di Marzo. Non ho sacrifici per il tuo tempio, ho solo queste mani e nient'altro, con cui invocare la tua presenza.
A volte, fermo in mezzo al mare mi guardo intorno, la linea del Golfo sembra allungarsi, prima di tornare visibile e chiudersi nella spiaggia bianchissima. Posso vedere le vele scure arrivare da Nord- Ovest, posso vedere le braccia degli uomini che spingono sui remi, sentire i loro discorsi, i loro pensieri, come se fossi seduto tra di loro.
- Quanto manca ancora Thanor? Quando potrò sedermi sotto i cedri della mia casa e riposare il mio corpo?
- Gli dei non sono propizi, la corrente non spinge abbastanza e le vele, le vedi, cadono dall'albero, come la pelle di un montone. Oh Bithia, povero Bhitia, l'inverno ci sorprenderà in mare; dovremo ancorare le nostre barche ed aspettare che il Tempo migliori.
- Ho con me i doni per le sorelle, Thanor, i mercanti di Tiro aspettano la dote e il mio vecchio padre non può onorare l'impegno, vuoi che rimangano a casa per tutta la vita?
- Bithia, non puoi comandare ai venti di soffiare, né agli dei di riempire le nostre stive. A bordo non è rimasto quasi nulla da mangiare, i rematori si lamentano, vedo la loro pelle farsi trasparente. Dovremo per forza puntare la nostra prua verso terra ed affrontare l'inverno, in legni più forti di questa nave e pregare Jam .
- Allora preparerò i fuochi.
- Fai in modo che gli indigeni vedano i nostri segnali: offriremo le nostre merci in cambio del loro cibo. Non abbiamo il tempo di ripartire, le tue sorelle aspetteranno, Bithia, non possiamo fare altro...
Così vedo i segnali di fumo arrivare fino alla collina, sento le voci concitate dei pastori e degli uomini della terra. Urlano e corrono. Gli uomini del mare hanno porpora per la loro lana bianca, pietre lucide per poter catturare il loro viso. Preparano altri fuochi per rispondere alla loro offerta: sgozzano gli agnelli migliori, raccolgono l'uva più dolce e offrono il vino e gli altri doni da lasciare sulla spiaggia agli dei del mare che ricambieranno.
Essi sbarcano dalla nave, scaricano le loro merci, curvi sulla spiaggia. Ringraziano i loro dei, esaminano l'offerta, poi, accanto ai vasi, alle anfore, collocano la statua di Tanit e pregano, che lì riporti a casa o che ne offra loro una che possa accoglierli senza farli sentire stranieri.
Dalla collina gli uomini di terra spiano i loro gesti, aspettano accanto ai fuochi, che altri fuochi, rispondano al loro saluto: l'estate sta finendo e sulla pelle scura dei marinai, l'estate arriva velocemente.
- Non essere irruente Bithia, aspetta che loro accettino e prega il tuo dio, che loro ci accolgano. Lì senti? il vento porta il loro odore: ci guardano. Siamo troppo lontani da casa, nelle nostre stive abbonda l'oro; le ametiste e l'ambra accecano i nostri occhi, ma il nostro cibo è scarso. Dovremo scendere a terra e piantare il grano, bussare alle loro capanne e chiedere qualcosa con cui sfamarci, prega il tuo dio Bithia, che la quiete di questa terra, continui nel loro cuore.
- Sono stanco Thanor, stanco di pregare e di sperare, stanco di viaggiare e stanco del mare. Nessuna donna vuole un mercante come sposo: un uomo che prende la via del mare, lascia un letto freddo e figli senza padre. Thanor, ogni volta tornare a casa è sempre più difficile, sono sempre più straniero. I miei vecchi genitori non mi riconoscono, la mia promessa sposa aspetta un figlio che non è il mio. Divento ricco e solo, a cosa serve tutto questo?
- Bithia , tu stai invecchiando, diventi lagnoso come una moglie. Lo sapevi che sarebbe stata questa la tua vita: perché l'hai scelta? Potevi seguire tuo padre nella sua bottega di Berito, forse, tra le creta e i vasi, avresti avuto tempo per le donne.
- Non burlarti di me Thanor, sai che amo il mare più di qualsiasi donna, dico solo che ogni tanto, vorrei avere un posto dove fermarmi.
- Potevi farlo nel Maghreb allora, a Bes o ad Ugarit . Le donne non mancavano di certo. Puoi sempre farlo qui, in questo posto che ancora non conosciamo ma che sembra buono per piantarci il grano e i pali delle nostre tende....Punta il timone verso il Golfo, Bithia, prendi i tuoi uomini e vai a vedere se gli indigeni hanno gradito le nostre offerte.
- A che ti serve un altro scalo Thanor, vuoi forse allontanarti per sempre da casa tua? Spero che gli indigeni siano ostili e non lascino che i tuoi uomini scavino un fossato intorno all' accampamento.
- Ah! Bithia, povero Bithia....Non è l'oro dei selvaggi che cerco, né la loro terra né i loro doni: noi siamo il loro dono. Da noi impareranno i segni per parlare con i sordi, i segreti per tingere la loro lana e come costruire i migliori vasi. Credi che basterebbe il loro oro, credi che basti una lingua della loro terra? No, non ci stiamo allontanando da casa, la stiamo allargando Bithia, stiamo costruendo un'enorme casa, dove tutti possano abitarvi!!!
Il popolo della terra guarda la grande nave tornare. Nel grande Golfo Azzurro, è solo una macchia scura che si muove lentamente come la pinna di un pesce affamato che fruga nel fondale. Dalle colline, gli uomini avvolti nelle pelli di pecora, seguono la scia bianca, hanno riacceso i fuochi, hanno accostato i loro doni accanto ai loro e aspettano, gli uomini dalla pelle scura.
- Spingete sui remi per Baal, non voglio che la notte ci trovi a bordo. Aumentate i colpi, batti sul tamburo!!! Il signore del vento ignora le nostre vele? Noi percuoteremo più forte il mare. Faremo scoppiare l nostre braccia, ma vinceremo la corrente: metteremo a terra questa nave, e il nostro corpo, dormirà sull'erba.
- Non essere in collera con il Dio, Thanor, è lui ad allontanarci da questi lidi, forse vuole che non si vada oltre.
- Appena a terra, faremo un sacrificio in suo onore, ma ora aumenta i colpi del tuo tamburo, se non vorrai essere tu il primo ad offrire il tuo sangue!!!
Sulla spiaggia, i fuochi accesi rischiarano le prime ombre. Gli uomini scuri sono soddisfatti delle offerte: bevono il vino, mangiano la carne in silenzio. Intorno, l' odore delle spezie si diffonde. Gli uomini della collina annusano i nuovi odori, ascoltano il suono magico di quelle voci che sgombra il loro cuore dalla paura e piano si avvicinano. Gli uomini scuri, visti da vicino, sembrano più piccoli e più fragili. Pregano, come se nel loro sangue, lo spirito di una Fenice, si consumasse mille volte, nelle loro voci misteriose, ripetono il rito della morte.
Pregano: lo spirito di Amon si perpetua, il sacrificio si rinnova e ogni volta, sono pronti per incominciare un'altra volta, in un' altro posto.
L' ambra e la cannella ed il garofano sull'odore della pecora e sui frutti, nuovi odori e respiri, che scavano nel silenzio, nuove strade da seguire.
- Abbiamo visite Thanor.
- Lì ho sentiti anch'io...
A volte, fermo in mezzo al mare, mi ricordo di te.
Ah!...Se fossi sottile come i granelli di sabbia che passano tra le mie dita o, luccicante come i frammenti di corallo che rosseggiano tra i quarzi, sotto le mie unghie: potrei, in un attimo, entrare nel tuo corpo e fondermi con i tuoi sensi!
Potrei sentirmi forte come la risacca che urta la chiglia di questa barca e scuote il legno dove il tuo ricordo dorme. Potrei sentire il suo corpo prendere forma e riempire i miei occhi che guardano ed inseguono i tuoi seni marini che puntano verso l'orizzonte.
In un attimo, diventerai qualcosa per cui va bene, consumare una vita, qualcosa che di notte potresti ancora chiamare amore e di giorno, annegare tra queste onde - come quando il sudore ci incollava, come sabbia sulla pelle bagnata.
Allora, stringo forte le mani e lascio che il tuo corpo continui nel mio, indissolubilmente - così, se fossi veloce come la scia del plancton, potrei entrare nella tua bocca e disperdermi nel tuo sangue.
Potrei vincere questa corrente e risalire alla tua foce, potrei, vincendo quest'emozione, lasciare che sotto di noi, le maglie della rete si allarghino, così che tutti i pesci possano passarvi e seguirli, nelle loro rotte matematiche, che solo loro conoscono e ancora, sparire in quei gorghi, che solo il loro istinto conosce e doma e trasforma in rifugio.
Vorrei che le tue mani diventassero come certe alghe senza fine e i tuoi seni, clessidre da capovolgere e ancora capovolgere: sarei la tua sabbia, il tempo che passa e cancella tutto.
Ricordo quando tornavamo in quel posto che chiamavamo casa, che d' inverno il mare riempiva e d'estate, il sole bruciava, spesso vestiti solo del maestrale; lo sentivo, tra le canne e il giunco, il Grande Lavoratore scavare senza tregua nei nostri cuori e riprendersi in un attimo, la sabbia che aveva accumulato nella nostra spiaggia. A volte, ci fermavamo stupiti ad ascoltarlo, fino a diventare, come marinai ubriachi sulla prua di una nave o come molluschi, legati ai pali per spurgare.
La notte, niente fermava il volo delle zanzare e niente avevo di cui coprirti, né fiori, né lenzuola: potevo solo adagiarmi al tuo fianco e vegliare il tuo sonno, lasciando in alto le mie reti, perché i tuoi sogni non s'impigliassero. Ancora adesso, se avessi le forti ali del falco, salirei il punto più alto del cielo e poi mi lascerei andare: fino a schiantarmi al tuo fianco, in fondo a questo mare dove riposi.
Se non ti avessi avuta, se non avessi saputo delle tue labbra, potrei, mentre viene l'ora, legarmi al timone di questa barca e lasciarmi andare.
Potrei fondermi con quest'alba, crocefiggermi sulla vernice scrostata delle barche, tra la ruggine delle ancore e le facce di gesso che accendono sigari ed incollano madonne a prua. Potrei, tra un sorso di questo liquore forte e le reti sgranate come un rosario, supplicare il mare e la sua clemenza.
Ma lascio che le braccia cadano lungo il corpo, che il mio fuoco si consumi, come le comete d'Agosto, lascio che sopra le tue palpebre, il sonno balli ancora e dissolva la stanchezza, come la spuma bianca dei motori che partono, poi: quando tutti saranno andati via, mi alzerò e seguirò le rondini.
Lascerò la mia casa senza porte, dimenticherò la fame e la stanchezza ed andrò su altre rotte. Troverò il tuo corpo seguendo la danza dell'ippocampo, ti nasconderai sotto il passo misterioso dell'aragosta, ti muoverai leggera come una medusa trasparente in acque che non vedranno mai l'uomo, diventerai anche tu cibo e bocca, la tua pelle muterà i pori e cavalcherà le onde e laggiù negli abissi, avrai il corpo splendente dei delfini.
Torneremo ad essere i signori di questo mare, nuovi dei infinitamente potenti. Prenderò le tue gambe e le stringerò forte, le tue braccia si chiuderanno come le chele di un granchio, non resterà niente di tuo o di mio, ci dissolveremo come le nubi di giugno, negli azzurri infiniti del cielo.
E non saprai che ti ho cercata in tutto questo tempo che non c'eri e non ti ho avuta. Camminavo su questo mare, ti aspettavo al largo e non c'eri ma eri presente, ti respiravo nei pollini che arrivavano dall'isola, non c'eri, ma ti impigliavi nelle mie reti e vincevi, il richiamo dei fondali.
Non c'eri tra i brandelli di rete che portavo a galla, non c'eri ma ti aspettavo, come le mogli umili sul molo, con l'occhio verso la tempesta, tra gli scialli neri e le facce violate, scrutavo cercando la sagoma amica che riaccende il sorriso o un relitto, per seppellire nel pianto, tutti i giorni a venire. Ti aspettavo e accendevo le candele, accanto ai fiori, sotto il tuo ritratto.
Umile, come i vecchi padri, aspettavo l'esiguo prezzo di troppi giorni di pesca, che i signori della città lesinavano e mettevo nelle tasche, quel poco che riuscivo a stringere.
Ma laggiù, dietro l'isola, dove il mare scurisce, dimenticheremo tutto e scioglieremo questo sortilegio e se avrai ancora il cuore grande come le onde, potrai specchiarti in lui e non sentire più il tempo passare sul tuo viso.
E se i tuoi occhi vedranno solo mare, potrai riempirlo di isole spiagge e scogliere sterminate e intorno boschi verdi e animali e ancora colori e suoni che non potranno svanire e il tempo, impigliato nell'amo del nostro amore, si dibatterà furioso, come i fieri pesci d'altura.
Sentirai il Mediterraneo scatenarsi nelle sue danze, venti di terra confondersi e poi perdersi, le nostre lingue unirsi e la memoria crearne una che solo noi potremo parlare.
Sentirai il freddo e il caldo, umiliarsi sulla tua pelle e riuscirai a rompere il cerchio che ti trattiene e sarai libera.
E ti ho cercata nelle sirene che chiamavano, nelle facce chiare delle donne che venivano a prendersi l'estate e sorridevano, con i cuori in equilibrio tra gli asciugamani e le creme.
Ti ho cercata nella loro pelle che diventava scura, nelle spiagge che si accorciavano e si riempivano di nuovi odori che non conoscevo. Ero nessuno accanto ai corpi che spiavo e che desideravo e dai quali ero lontano e inutile. Le osservavo, mentre sceglievano i pesci migliori e mi chiedevo, se ne valeva la pena di strappare la vita dai fondali, setacciare il mare come il fondo delle mie tasche. Non era giusto rovistare la casa della pacifica sogliola, raccogliere i piccoli pesci che nessuno mangiava; in cambio di qualcosa che non spegneva la mia fane e non riempiva la mia tasca.
Ma ancora prima, quando non sapevo di te, quando non conoscevo il tuo miele e con gli amici si faceva a gara con i remi e avevo forti, le braccia che ora indugiano sui legni. Avevo solo reti nel mio cuore e fili, con cui un giorno, pescare la fortuna del mondo. Tu eri a un passo, in quella città che ancora non conoscevo. Confusa tra i rifiuti che avanzavano, con i rumori e i suoni, che facciano scappare i pesci dallo stagno e gli uccelli dal cielo.
Tu non c'eri, quando il nostro mare si accorciava ed eravamo sempre di meno a prendere il mare e sempre più soli la sera, nelle nostre case: in quella laguna che rimpiccioliva e sprofondava, tra la nafta e la benzina che galleggiava su quello che era il nostro pane.
A volte, sulla sua superficie, i pesci cadevano nella trappola e vedevo le loro piccole zampe annaspare, impigliate nei sacchetti di plastica, nelle bottiglie vuote: in quella trappola di colla che non perdonava. Non potevo fare nulla per loro, solo guardarli lentamente morire, in nasse così grandi che nessuno poteva immaginare.
Ma altre volte, quando seguivamo la corrente, ricordo i tuoi occhi ancora assonnati. Tu adesso non puoi guardarti indietro, ma io le ricordo, le barche che lasciavano la riva e ci seguivano. Era una lenta processione di braccia indurite e vene azzurre che esplodevano sulle braccia aggrinzite: i vecchi dalle mille storie che conosci. Occhi, bocche e orecchie, confuse con la spuma bianca della nostra scia, animali affamati che aspettavano il cibo che avanzavamo: occhi che hanno visto, bocche che hanno mangiato e orecchie, che hanno sentito il nostro respiro.
Allora non gettavo le mie reti, i miei ami arrugginivano nella scatola; mi lasciavo andare sul fondo della barca, volavo basso sulla tua pelle, come i piccoli uccelli delle tempeste che sfuggono il vento.
Non disturbava il bianco delle loro barbe, quando si fermavano accanto a noi: anzi, mi faceva stare bene sentirli vicini, sapere che si nutrivano di noi e riempivano la loro stiva di una pesca miracolosa.
Non avevo vergogna del mio corpo e del tuo, nudi. Volevo che guardassero e che il loro desiderio, si accendesse come una lampada per i pesci della notte.
Erano il mio respiro, i paggi silenziosi che trasportavano il tuo velo, fino all'altare rosseggiante che ci aspettava, alla fine della notte: i loro occhi velati di sale, vedevano le perle nascere dal tuo ventre e il tuo corpo aprirsi, come un'alba ad ospitare il sole.
Ci avrebbero seguito ancora, pronti a ricevere l'urto della tua marea, con un sorriso aspetteranno di diventare alghe.
Ma il ciclo riprende lentamente, come questa barca che adesso sa dove andare, sembra non sentire i colpi del remo ma si muove. Le mie mani si fondono col legno, hanno lo stesso sapore che gli altri non sanno: te lo ricordi quando baciavi le mie mani e vi sentivi il mare? Te lo ricordo quando dicevo, un giorno avrò un figlio e gli darò il tuo nome? Te lo ricordi; te lo ricordi?
Ma il ciclo riprende come il lento rinforzare del vento e ancora una volta, sono accanto a quelli che mi hanno insegnato a conoscere il nord e la corrente per ritornare. Adesso ho imparato ad ascoltare il mio silenzio e il battito del mio cuore che scandaglia i fondali della memoria.
Lascio che altre barche mi seguano, che scie più veloci delle mie, capovolgano il mio scafo. Nell'aria c'è scritto cosa fare, per sentirsi soli in questo deserto azzurro che inghiotte tutte le rotte, ed è più facile farlo adesso, che non c'è nessuno che aspetta, né una bocca da sfamare.
A volte mi sembra che questa isola sia ogni giorno più piccola, quasi che debba svanire da un momento all'altro, come se fossimo entrambi come un' animale che un colpo di vento può spazzare via, mi sembra che il Tempo rimpicciolisca le cose e le allontani.
Come quando guardavo le barche andare via e non ero con loro. I miei ami di legno galleggiavano nelle pozze salmastre tra gli scogli, le mosche vi si posavano senza paura, quasi deridendomi. Ma allora, gli occhi di un bambino, ingigantivano le cose: adesso, gli occhi del vecchio, non riescono quasi a vederle ed è la stessa cosa, in fondo.
Altre volte, certe mattine, si usciva con mio padre e vedevo, i primi chiarori dell'alba, inciampare sulla cresta delle onde che urlavano. Certe mattine che il mare sembrava chiedere il tuo respiro e tu glielo davi e ti concedevi alle sue richieste di acerbo amante. Così mi aggrappavo alle gambe di mio padre e imparavo, a confondere il sapore del sale con quello delle lacrime e ad amare quell'essenza che dilagava nel cuore, confusa col sonno e il desiderio.
Adesso, come le mille altre volte che sono stato su questa linea che non porta da nessuna parte, vedo arrivare filtrata dal sale la luce del sole che batte sulla mia pelle sempre più scura e si perde tra le rughe e scivola negli abissi della memoria.
Adesso riesco ad amare ancora la mia vita, così come si amano certi pensieri oscuri che abbiamo dentro e ai quali non sappiamo dare un nome.
Il ricordo è la mia bussola impazzita tu sei il mio Nord, non mi serve altro, sei il sale che conosce i sapori e li conserva senza confonderli e forse, io stesso sono un ricordo e il resto non è mai esistito
A volte, fermo in mezzo al mare mi guardo intorno.
E non importa se sui basalti scuri del basolato, i signori Romani prendono la via delle Terme, non importa, se tra gli angoli delle strade, la dolcissima lingua dei vincitori risuona a festa, se i nomi degli dei cambiano e così gli odori e le storie, il resto non cambia, tutto intorno è Sardegna; solo è sempre Sardegna. Cambia il colore delle statue e delle porpore, cambiano i colori del bronzo e dei piccoli parassiti che lavorano il marmo, cambia il lucido delle ceramiche e delle sete, sotto la pioggia il vento e l' aria.
La terra torna alla terra, copre tutte le parole, copre i discorsi di Thanor, i malumori di Bithia, sovrasta le urla degli schiavi del Proconsole Romano, la Spada d'argento del Duca di Spagna e della sua Corte. Copre il sacrificio di Eleonora, le sue schiere e i suoi codici inchiodati alle sbarre della sua Torre.
Copre il rumore degli aerei che si avvicinano al cielo e del cielo che urla, cercando di avvicinarsi all'uomo.
Terra e ancora terra, nel Sinis gravido di memorie.
Cenere e ancora cenere nelle urne offerte al dio e vento nelle grandi vele di quest'isola errante che sfida ancora le correnti e reclama giovani marinai per governarne la rotta. Arriva la sera, il mare è solcato da vele che non sanno dove andare. I pesci, sui fondali, si nascondono tra le pieghe della roccia, tra i vasi ancora pieni d'olio e di grano, tra il primo buio e le mille Veneri nascoste nella sabbia.
E' l'ora di tornare per quelli che hanno casa, il caldo del sole è ancora nell'aria, qualcosa che rimane nel cielo, si fonde nell'orizzonte dove troneggia come solo e unico dio.
E' tardi per ascoltare altre voci, finalmente posso appoggiare le mie orecchie sul ventre del Tempo, e ascoltarvi il mare che vi urla dentro, poi, come le conchiglie impigliate nel bagnasciuga, aspetterò tranquillo, l'onda amica che mi porterà via.
mercoledì 4 novembre 2009
martedì 3 novembre 2009
per la tua bellezza
Per la tua bellezza
Per la tua bellezza che viene a trovarmi
Lascio aperte le porte e le finestre
Lascio sul tavolo il mio cuore
Imbandita l’anima
E fresche lenzuola sul letto
E vino sui bicchieri per brindare
E parole su questa pagina
Parole come fiori
che possano appassire nelle tue orecchie
E luci che si consumino sotto il tuo sguardo
Per la tua bellezza che viene a trovarmi
io sono pronto
Io sono pronto
Pro sa bellesa
Pro sa bellesa tua chi benit
Lasso aberta jannas e ventanas
Lasso in sa mesa su coro
Aparizzada s’anima
Friscos lentolos in su letu
E binu in calighes a cumbidare
E peraulas in custu follu
Peraulas che fiores
Pro s’allizare in sas orijia tuas
E lughe a si finire i nsa mirada
Pro sa bellesa tua chi benita m’agatare
Deo soe innoe
Deo soe innoe
(MPL per FF)
Per la tua bellezza che viene a trovarmi
Lascio aperte le porte e le finestre
Lascio sul tavolo il mio cuore
Imbandita l’anima
E fresche lenzuola sul letto
E vino sui bicchieri per brindare
E parole su questa pagina
Parole come fiori
che possano appassire nelle tue orecchie
E luci che si consumino sotto il tuo sguardo
Per la tua bellezza che viene a trovarmi
io sono pronto
Io sono pronto
Pro sa bellesa
Pro sa bellesa tua chi benit
Lasso aberta jannas e ventanas
Lasso in sa mesa su coro
Aparizzada s’anima
Friscos lentolos in su letu
E binu in calighes a cumbidare
E peraulas in custu follu
Peraulas che fiores
Pro s’allizare in sas orijia tuas
E lughe a si finire i nsa mirada
Pro sa bellesa tua chi benita m’agatare
Deo soe innoe
Deo soe innoe
(MPL per FF)
come succede?
Premessa
A volte si crede che tutto ruoti intorno alla nostra vita. Pensiamo di essere noi, il Sole. Siamo convinti che le cose, i fatti e gli accadimenti siano li, pianeti e satelliti, a girare al centro di scelte del destino, prescelti, predestinati a ruoli intorno alla nostra Luce.
Quante volte abbiamo detto che una storia ci ha cercato, un amore, un dolore o una semplice giornata di sole o di pioggia sia stata preparata per noi da un designatore mistico. Diamo al nostro esistere un ruolo fondamentale al proseguire infinito dell’universo. Forse questo nasce dalla paura di non contare più di tanto nel mondo, dal terrore di appartenere a moltitudine di corpi che hanno abitato la terra e si sono dissolti nel volgere momentaneo dei secoli. Abbiamo paura che la nostra esistenza non lasci un segno. Di essere insignificanti. Per questo diamo alle cose un importanza che in fondo non hanno in quanto credo che siamo noi a mettere in moto il meccanismo, noi che cerchiamo l’amore e la sofferenza, il traguardo, la vittoria e la sconfitta: noi siamo artefici del nostro destino. Ogni nostro passo non è casuale ma scelto misurato- poco importa che sia conscio o inconsapevole. Siamo noi che decidiamo, scrivendolo con largo anticipo, quello che sarà il nostro futuro. Nulla è scritto, tutto è in attesa, sulla penna del Tempo
A volte si crede che tutto ruoti intorno alla nostra vita. Pensiamo di essere noi, il Sole. Siamo convinti che le cose, i fatti e gli accadimenti siano li, pianeti e satelliti, a girare al centro di scelte del destino, prescelti, predestinati a ruoli intorno alla nostra Luce.
Quante volte abbiamo detto che una storia ci ha cercato, un amore, un dolore o una semplice giornata di sole o di pioggia sia stata preparata per noi da un designatore mistico. Diamo al nostro esistere un ruolo fondamentale al proseguire infinito dell’universo. Forse questo nasce dalla paura di non contare più di tanto nel mondo, dal terrore di appartenere a moltitudine di corpi che hanno abitato la terra e si sono dissolti nel volgere momentaneo dei secoli. Abbiamo paura che la nostra esistenza non lasci un segno. Di essere insignificanti. Per questo diamo alle cose un importanza che in fondo non hanno in quanto credo che siamo noi a mettere in moto il meccanismo, noi che cerchiamo l’amore e la sofferenza, il traguardo, la vittoria e la sconfitta: noi siamo artefici del nostro destino. Ogni nostro passo non è casuale ma scelto misurato- poco importa che sia conscio o inconsapevole. Siamo noi che decidiamo, scrivendolo con largo anticipo, quello che sarà il nostro futuro. Nulla è scritto, tutto è in attesa, sulla penna del Tempo
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